Quando i clandestini eravamo noi


Sessant’anni fa usciva al cinema il film di Pietro Germi, “Il cammino della speranza”.

Immagine prelevata dal sito nonsoloproust.splinder.com

La memoria è un bene prezioso quanto fragile e deperibile. Per questo dimenticare le proprie origini, perdere la memoria storica equivale a un suicidio sociale e politico. Significa mettere a rischio la capacità di sviluppo di sé stessi e degli altri. Quando la società è ridotta, come oggi, a consumo di merci, gli uomini sottomessi a questa logica che cancella la natura e la volontà, come ciechi brancolano nel vuoto dei valori e campano alla giornata. La memoria, allora, preda del silenzio, assume l’aspetto di una pagina bianca che l’oblìo contribuisce a riempire con inchiostro intinto nell’ipocrisia e nella menzogna. In Italia si coltiva poco la memoria, non a caso ogni tanto fioccano appelli che esortano a non dimenticare e a ricordare momenti significativi riguardanti la storia culturale, politica e sociale del nostro Paese. Sessant’anni fa, nel novembre del 1950, veniva proiettato nelle sale cinematografiche il film di Pietro Germi “Il cammino della speranza”, sceneggiato dallo stesso regista, con Federico Fellini e Tullio Pinelli, e ispirato al romanzo “Cuori negli abissi” di Nino Di Maria. In realtà, quasi dettatto dalla copertina de “La Domenica del Corriere” del 29 dicembre 1946, la cui didascalia così recitava: “L’odissea degli emigranti clandestini. Abbindolati da losche organizzazioni, avviati verso il confine senza il minimo equipaggiamento invernale e poi abbandonati in mezzo alle montagne in preda al gelo, alla neve e alla bufera, cinquanta siciliani, fra cui alcuni ragazzi, vengono soccorsi, nell’alta valle d’Aosta, da una pattuglia di carabinieri e riaccompagnati al piano per essere rinviati alle loro case”. Nonché da un preciso episodio di cronaca dell’aprile 1948, che emozionò molto il regista, che non riusciva ad allontanare dalla mente l’immagine di alcuni miseri terroni che avevano attraversato l’Italia quant’è lunga, clandestini e stranieri nella loro patria, fino all’orrore delle montagne colme di neve: “Nella notte del 6 aprile, i carabinieri di La Thuile, in perlustrazione verso la zona di confine, s’imbattevano in un gruppo di otto persone in deplorevoli condizioni fisiche. Dalle medesime ebbero la confessione che si trattava di emigranti clandestini a scopo di lavoro: tutti operai disoccupati provenienti da Amantea, in provincia di Cosenza. Con essi vi era un individuo il quale si era impegnato di accompagnarli al confine dietro il compenso di 5 mila lire per ognuno”.

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Dopo “In nome della legge”, che aveva raccontato la povertà dei minatori del paesino di Capodarso alle dipendenze di un barone sfruttatore, ancora una volta lo sguardo di Germi si posa sulla Sicilia. “Il cammino della speranza”, infatti, è la storia di un gruppo di zolfatari siciliani che, in maniera controcorrente rispetto alla tradizione vittimistica e fatalistica che difende l’isola esaltandone l’immodificabilità, decidono a modo loro di ribellarsi al destino che li inchioda a una povertà senza scampo, e dopo sofferenze e vicissitudini riescono a sottrarsi fisicamente all’inferno sotterraneo del loro paese, percepito come luogo della miseria, e a emigrare clandestinamente in Francia, intesa
come luogo della promessa, del benessere e del progresso.
Sotto le mentite spoglie del melodramma popolare, “Il cammino della speranza” è uno squarcio di storia nazionale esemplare della scissione secolare fra ceti subalterni e istituzioni, foriera della italica “arte di arrangiarsi”. E’ un viaggio da sud a nord, concepito come un percorso a ostacoli, che racconta un paese dove l’economia non ha ancora iniziato la sua ascesa e tuttavia già distratto da falsi miti, modelli culturali e mentali, stili di vita che vanno in direzione opposta ai valori forti che poco tempo prima erano stati alla base della guerra di Liberazione.

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Significativo è, in questo senso, l’episodio del gruppo dei siciliani che arriva alla stazione Termini, dove Lorenza e il marito Antonio sùbito si perdono in una Roma tappezzata di manifesti pubblicitari, caotica, indolente, rumorosa, tentacolare. Film artisticamente ed esteticamente ineccepibile, tecnicamente straordinario, “Il cammino della speranza” rivisto oggi dà l’impressione di essere un’opera di produzione senegalese o cingalese o indiana, perché racconta con linguaggio universale una storia degli anni del dopoguerra, quando gli abitanti del Belpaese erano fra i protagonisti dell’emigrazione in Europa, nelle Americhe, in Australia. Una storia dimenticata o rimossa dagli italiani. Incomprensibile a troppi giovani e giovanissimi, che poco o nulla sanno sull’anima e l’identità vere di un popolo, sulla sua precarietà esistenziale fatta di partenze, di abbandoni laceranti, di destini incerti. Ieri come oggi.

LORENZO CATANIA

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