Recensioni
“Corriere della Sera” , 07/04/2010
Giovanni Bianconi , I boss, gli appalti e le gite in barca I misteri della Palermo di “don Vito”
Si può credere tanto, poco o per niente ai racconti di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco democristiano e mafioso di Palermo nonché sedicente e involontario maggiordomo dei rapporti tra Stato e Cosa nostra per oltre vent’anni. Ma la mafia esiste, le relazioni con la politica non sono mancate, e certamente Vito Ciancimino è stato uno dei principali protagonisti di quell’intreccio perverso costruito nei salotti in cui l’ultimo dei suoi rampolli faceva accomodare gli ospiti per congedarli a fine visita. Di sicuro custodiva molti segreti, che oggi il figlio Massimo ha deciso di svelare almeno in parte; per quasi due anni in decine e decine di verbali d’interrogatorio, e ora in un libro scritto insieme al giornalista Francesco La Licata, (Don Vito, Feltrinelli), che ha ascoltato anche i ricordi di Giovanni, il primogenito di Ciancimino. Ne è venuto fuori un groviglio di storie e rivelazioni affascinante prima che inquietante, che non possono essere gettate via senza verifica. A cominciare dall’ultimo mistero – vero o presunto che sia – cioè la morte arrivata il 19 novembre 2002, mentre “don Vito” tentava di mettere insieme i pezzi di una vita piena di chiaroscuri, in un periodo nel quale la salute andava meglio del solito. Intorno alle 2 di quella notte telefonò a Massimo senza avere risposta, ma ufficialmente il decesso è stato fissato un’ora prima; e i due domestici moldavi di servizio nella sua casa romana, dal mattino seguente sono spariti dalla circolazione. Fu fatta l’autopsia, ma l’altro figlio Giovanni lamenta che “ancora nessuno ha comunicato a noi familiari le cause della morte”. Un altro mistero che aleggia tra le pagine del libro è l’identità del “signor Franco”, uomo legato ai servizi segreti e altri ambienti istituzionali che ha avuto rapporti strettissimi con l’ex sindaco, dagli anni Settanta fino al suo trapasso: al funerale portò a Massimo le condoglianze di Bernardo Provenzano, il capomafia corleonese stimato e rispettato da Ciancimino sr, a differenza dell’altro boss compaesano, Totò Riina, “che al posto della testa ha una rivoltella”, come ripeteva don Vito. Nel tentativo di dare un nome e cognome a questo enigmatico personaggio, Ciancimino jr ha riconosciuto in fotografia un paio di uomini che si muovevamo intorno a lui, tra i quali un sedicente “capitano” che da ultimo l’avrebbe minacciato invitandolo a non parlare troppo coi magistrati. Massimo ha pure ricordato di aver visto “Franco” uscire dall’ambasciata statunitense presso la Santa Sede, il giorno del 2006 in cui gli consigliò di allontanarsi dall’Italia, poco prima dell’arresto di Provenzano. Dettagli da spy story a condimento di un racconto che quando rievoca gli anni Settanta palermitani assomiglia a una versione realistica e nostrana de Il padrino. Con tanto di testa di capretto mozzata recapitata all’ex sindaco ancora troppo riottoso, e di un vero e proprio sequestro di persona di cui Vito Ciancimino fu vittima per essere condotto al cospetto di qualche boss. Ci sono le feste, le gite in barca e le serate mondane dove si mangiava e si discuteva di come spartire gli appalti, ma poi qualcuno finiva ammazzato come capitò al medico e docente universitario Sebastiano Bosio, forse “colpevole” di uno sgarbo al boss Giacomo Giuseppe Gambino. Ci sono le pressioni mafiose (andate evidentemente a buon fine) per costruire l’aeroporto a Punta Raisi anziché in un’altra zona dove avrebbe avuto maggiore razionalità, ma era lì che Riina e Badalamenti avevano concentrato investimenti e progetti di espansione, oltre al racconto sui presunti finanziamenti di uomini vicini a Cosa nostra del progetto edilizio berlusconiano chiamato Milano 2. E ci sono le relazioni pericolose gestiti dal luogotenente di Andreotti in Sicilia Salvo Lima, assassinato a marzo del ‘92, quando si aprì la stagione del terrorismo mafioso. Quell’omicidio terrorizzò Ciancimino ma non solo. Suo cugino Pino Lisotta, a sua volta legato a Lima e a coloro che si trovavano con lui quando fu affrontato dai killer mafiosi, fu sopraffatto dallo stress, “convinto che di lì a poco si sarebbe alzato il coperchio che nascondeva il marciume di un’epoca”. Si uccise impiccandosi con la corda della serranda in camera da letto, ma la sua morte fu camuffata da infarto. “Per nascondere i segni della corda”, racconta Massimo Ciancimino, il cadavere fu vestito con un maglione a dolcevita: la copertura di un suicidio come ultimo, disperato tentativo di coprire i rapporti inconfessabili tra mafia e politica.
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“TuttoLibri” , 01/05/2010
Giorgio Boatti , Don Vito, gradisca un lingotto d’oro
L’ossessione dell’accumulare “roba” che avvelena i giorni di Mazzarò, protagonista di un famoso racconto di Verga. Ma c’è, anche, la gelida ferocia con cui i padroni del latifondo siciliano, alla richiesta di applicazione della legge sulla distribuzione delle loro terre incolte ai contadini, rispondono con il massacro dei lavoratori riuniti nel 1947 a Portella della Ginestra per la festa del Primo Maggio.
Sono i soldi il motivo conduttore di Don Vito, il libro con cui Massimo Ciancimino e Francesco La Licata narrano l’inarrestabile ascesa politica e, poi, la caduta di don Vito Ciancimino, assessore all’urbanistica e poi sindaco di Palermo per conto del “clan dei corleonesi”. Quasi ogni pagina un’istantanea dell’invasamento per la “roba” dell’esponente Dc, arrestato da Falcone nel 1984. Ciancimino vuole ad ogni costo la propria parte sullo scempio edilizio, gli appalti, gli affari della nuova mafiache governa Palermo.
La “roba” di Don Vito è il lingotto d’oro che un Totò Riina non ancora al vertice di “Cosa Nostra” gli consegna, in camera da letto, con imbarazzato rituale. Sono le mazzette di contanti nascoste in cucina, dietro sei piastrelle movibili. Sono le borse di soldi che Ciancimino va periodicamente a depositare a Roma presso lo Ior, la banca vaticana. Sono i conti cifrati, alimentati da sempre nuovi apporti, che don Vito va a controllare presso gli istituti finanziari svizzeri di Lugano, dopo lunghissimi viaggi in treno, accompagnato dall’inseparabile figlio Massimo. Vale a dire il supertestimone su cui da qualche tempo sta puntando la Procura di Palermo per riscrivere parte della storia sommersa della mafia, dall’assassinio del generale Dalla Chiesa alla cupa stagione delle stragi del ’92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino.
La “roba” di don Vito sono infine gli importanti investimenti immobiliari in Canada – supermercati e palazzi – effettuati dal figlio ventenne, scrupolosamente filmati su videocassetta e va vagliati con soddisfazione dall’intera famiglia Ciancimino, riunita nel salotto di casa attorno al dispotico patriarca.
Sono forse proprio questi squarci sul rapporto ossessivo e vorace con i soldi, oltre alle pagine spiazzanti sulla stretta e lunghissima frequentazione tra l’uomo politico palermitano e il boss Bernardo Provenzano, alias ingegner Verde per i ragazzi di casa Ciancimino, a costituire la filigrana più rivelatrice, l’impatto più inatteso, di Don Vito, firmato da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex-sindaco palermitano, e da Francesco La Licata inviato speciale de La Stampa e memoria storica tra le più attente ed autorevoli del giornalismo italiano attorno alle vicende della mafia.
Ciancimino e La Licata – bisogna chiarirlo – non hanno scritto un libro a quattro mani. Piuttosto hanno composto un testo dal duplice procedere dove le testimonianze dirette di Massimo, e di tanto in tanto del fratello Giovanni, attorno a don Vito, padre anaffettivo ed esigente, illuminano con la loro versione dei fatti, quanto mai soggettiva, momenti e ambienti decisivi quali la Palermo di Lima, Gioia e dei cugini Salvo legati ai boss Bontade e Badalamenti, gli incontri con Calvi, i rapporti con la P2, le cruente faide scandite dall’ascesa dei “corleonesi”, l’azione di magistrati quali Falcone e il tentativo dell’ex-sindaco di salvare ad ogni costo il patrimonio, trattando con i nuovi vincitori.
La Licata interviene ad ogni capitolo e, con lo scrupolo del cronista e l’obiettività dello storico, contestualizza con precisione i passaggi cruciali, le periodizzazioni, l’entrata e l’uscita di scena di primattori e comprimari. Uno di questi ultimi è il misterioso “signor Franco”, emissario dei servizi segreti, che, secondo Ciancimino jr., avrebbe accompagnato buona parte della parabola di don Vito sino a pilotarlo anche nei convulsi tentativi di una inconfessabile trattativa intervenuta – tra le stragi e gli arresti dei massimi capi mafiosi – tra “Cosa Nostra” e settori dello Stato. Una vicenda, dalle nascoste verità e dalle tante bugie, su cui la magistratura è ancora all’opera.
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Fonte: feltrinellieditore.it