Il magistrato scelto dai lettori di LiveSicilia come personaggio più influente del 2013 si confessa: “I partiti trovino la forza di spezzare i rapporti con la mafia prima delle indagini. C’è chi sospetta che il clamore sulle minacce sia strumentale? Lo fecero pure con Falcone. Una mia discesa in campo? No, faccio già il lavoro che sognavo”.
di Riccardo Lo Verso
PALERMO – Per i lettori di Livesicilia è il personaggio siciliano dell’anno. E lui, Nino Di Matteo, sostituto procuratore a Palermo, uno dei pubblici ministeri del processo sulla trattativa Stato-mafia, bersaglio dei piani di morte di Totò Riina, si dice “felice” per l’esito del sondaggio. “Non a titolo personale, nè come magistrato, ma come siciliano”, precisa.
È un bel segnale.
“Sono rimasto favorevolmente sorpreso. Io cerco solo di fare il mio dovere, col massimo impegno e senza farmi condizionare da niente e da nessuno. Direi che l’esito del sondaggio è un ulteriore segnale di una Sicilia che comunque ha una grande voglia di cambiamento, di vera rivoluzione contro la mafia e la mentalità mafiosa. Una grande voglia di pulizia non solo rispetto alla mafia militare ma anche a certe dinamiche molto diffuse nel nostro paese, come la gestione con metodi mafiosi anche del potere ufficiale. Ecco, se devo trovare una spiegazione al risultato del sondaggio la rintraccio non nei meriti miei ma in questa grande voglia di cambiamento”.
Un bel segnale, ma non una buona notizia. Se c’è la necessità di affidarsi ad un magistrato per chiarire le pagine ancora misteriose della nostra storia, per sbarazzarsi di un sistema malato, non c’è da stare allegri. Anzi, direi che è disarmante.
“Non ritengo di avere meriti particolari. Credo che in questo momento storico, soprattutto fra i giovani, ci sia la pretesa diffusa, al di là degli schieramenti politici, di un cambiamento culturale che parta dall’affermazione della legalità. Che prescinda dal metodo mafioso, clientelare e lobbistico della gestione del potere. In questo momento è stato Di Matteo a raccogliere l’esigenza di cambiamento, ma poteva essere chiunque altro apparisse esercitare il proprio ruolo sganciato dai soliti criteri dell’appartenenza politica, della ricerca e della gestione del potere secondo un’ottica che non fosse esclusivamente di servizio”.
Che intende per “vera rivoluzione” antimafia?
“L’aspetto repressivo è uno e nemmeno il più importante dei cardini per la definitiva sconfitta della mafia. Serve una rivoluzione culturale, che deve essere rifiuto di assuefarsi al sistema dei favori e della raccomandazione. Sono il mare dove nuota anche il pescecane mafioso. Il mio è un osservatorio limitato, ma vedo tanta gente, soprattutto giovani, stanca di questo sistema fondato su non valori”.
Non è un caso allora che i politici, non come singoli rappresentanti ma come espressione delle istituzioni, siano i grandi sconfitti del nostro sondaggio?
“Non mi sento di fare un’analisi su questo dato. Posso, però, dire che per quanto avvenuto negli ultimi venti o trent’anni non si possa parlare di guerra, intesa come azione reciproca, fra politica e magistratura. Credo di potere inquadrare il fenomeno come un attacco sistematico, organizzato, violento di una gran parte della politica, molto significativa e anche trasversale agli schieramenti, nei confronti di quella parte della magistratura che si ostina a ritenere che la giustizia debba essere veramente uguale per tutti”.
E il cittadino Di Matteo cosa ne pensa della politica?
“Sogno una politica che invece di delegare, come spesso ha fatto, la lotta alla mafia a magistratura e forze dell’ordine si riappropri del ruolo fondamentale che potrebbe e dovrebbe avere. Sogno la politica, prescindendo dalla sua appartenenza ad un partito, di Pio La Torre. Nella relazione di minoranza in Commissione antimafia del ’76, La Torre scriveva nomi e cognomi dei politici collusi con i corlenesi prima ancora che i mafiosi fossero arrestati e i politici inquisiti. Non aveva bisogno dell’indagine della magistratura per denunciare le collusioni. La politica deve trovare il coraggio di cambiare passo. Non deve aspettare l’esito dei processi e delle indagini, ma trovare il coraggio di spezzare i rapporti con la mafia prima ancora che i nomi finiscano nei rapporti di carabinieri e polizia. Una politica attenta non ha bisogno delle indagini per capire dove si annida l’interesse mafioso”.
Come ha visto cambiare, se cambiamento c’è stato, la politica in questi anni?
“Anche in questo caso il mio osservatorio è ridotto. Non sono in grado di rispondere. Tranne gli aspetti patologici della politica che confluiscono nelle nostre indagini non possiedo altro metro di valutazione. Noto, però, che troppo spesso, rispetto all’emergere di ipotesi o dati di fatto sui rapporti fra mafia e politica, le reazioni sono sempre identiche. La parte vicina all’inquisito di turno grida al complotto e alla persecuzione politico-giudiziaria. Gli altri prudentemente aspettano gli esiti processuali. A mio parere, fermo restando il sacro principio della presunzione di innocenza, questa impostazione ha un difetto di fondo. Se un candidato va a braccetto con il mafioso per le vie del paese prima delle elezioni non commette un reato, ma accresce il suo potere e il prestigio del mafioso. Ecco perché sogno una politica che sappia far pesare responsabilità che prescindano dall’accertamento di un reato”.
Il processo sulla trattativa Stao-mafia ha come obiettivo quello di dimostrare le eventuali collusioni e convergenza fra mafiosi e pezzi delle istituzioni. È ipotizzabile che le minacce di Totò Riina nei suoi riguardi siano una reazione della mafia, del capo di Cosa nostra, al tentativo di smascherare il ruolo perverso della politica? Perché Riina, sepolto dagli ergastoli, dovrebbe essere infastidito dal processo sulla trattativa?
“Su questo punto non posso rispondere, perché è oggetto delle nostre indagini e di quelle dei pubblici ministeri di Caltanissetta. Posso solo dire che la parola minaccia non è appropriata. In realtà pare chiaro che si sia trattato di un tentativo di portare fuori degli ordini da parte di un soggetto che in quel momento e in quei luoghi non pare potesse prevedere di essere intercettato. E neppure, come molti affermano, che si sia trattato di frasi dette nella consapevolezza di essere registrato”.
Perdoni la domanda scomoda, ma c’è chi ipotizza che tutta la vicenda e il clamore mediatico che ha sollevato siano strumentali, addirittura volute.
“Lo pensino pure, sulle pelle degli altri è facile. Quando verranno depositate le trascrizioni delle frasi di Riina, ascolteranno le sue parole e guarderanno il video capiranno tutto”.
C’è allora un tentativo di delegittimare il suo, il vostro lavoro?
“Non mi sorprende più nulla. C’è sempre chi, di fronte ai proiettili, parla di auto-minacce. Persino ai tempi di Giovanni Falcone è andata così. Di fronte a tutto questo non rispondo nemmeno, non degno di considerazione chi insinua senza conoscere. Non mi sorprendo. È una storia che si ripete da sempre. Stavolta, però, si dovranno scontrare con il video e la voce di Totò Riina. Ritengo che ci sia, proprio nell’ottica di delegittimare determinati tipi di indagini, un tentativo di non valutare i fatti, persino di ribaltarli”.
Attorno a lei percepisce, dunque, un clima pesante, ma il paese è pronto a conoscere l’eventuale verità?
“Una parte sempre più significativa pretende giustamente che la magistratura faccia di tutto senza prudenze e calcoli di opportunità per cercare di fare chiarezza su quegli anni. Un’alta parte del Paese considera questi tentativi frutto di una volontà di gettare discredito sulle istituzioni pubbliche. O, nella migliore delle ipotesi, come tempo perso e risorse sprecate. Io credo che, rispetto a quanto è già emerso anche in sentenze definitive, sia doveroso continuare a indagare su punti oscuri di ciò che è avvenuto in quegli anni”.
Lei ha sempre detto che resterà al suo posto, ma in alcune sue precedenti dichiarazioni traspariva un velo di amarezza. Come dire, “ma chi me lo fa fare?”. Mi sbaglio?
“Da un punto di vista esclusivamente razionale, utilitaristico e di carriera, queste sono indagini che non solo non pagano ma alla lunga possono creare, tra virgolette, danno o pregiudizio. Noi magistrati, però, abbiamo giurato sulla Costituzione e in tanti, a Palermo, siamo entrati in magistratura sull’onda della passione per dare un contribuito e liberare la nostra terra dalla mafia, per ricordare con i fatti i nostri esempi. Ciò che razionalmente può non valere la pena, da un punto di vista del cuore e della passione civile, che deve animare anche noi magistrati, è sempre entusiasmante farlo. Bisognerebbe che ogni tanto qualcuno riflettesse sui sacrifici ai quali costringiamo le nostre famiglie”.
Un’ultima cosa. E se qualcuno, un giorno, le chiedesse di spendere la sua esperienza da magistrato in politica? Mai dire mai?
“Mi piace fare il magistrato. Faccio il lavoro che da giovane sognavo di fare”.
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Fonte: livesicilia.it