di Marica Di Pierri
Giornalista, attivista di A Sud e presidente del CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali
L’emergenza climatica non può più attendere. Eppure anche al Climate Summit di New York, passerella per governi e imprese, non si è andati oltre gli enunciati. E si guarda già alla Cop 2015 di Parigi, saltando Lima che invece è alle porte. Il punto della situazione, tra allarmi della comunità scientifica e false soluzioni.
La settimana scorsa ha visto catalizzata attorno a New York l’attenzione del mondo politico, dei media e delle organizzazioni sociali di tutto il pianeta. Oltre 120 leader di altrettanti paesi sono accorsi nella città statunitense per partecipare alla 69esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in programma dal 22 al 28 settembre. Al suo interno, per fortissimo volere del segretario generale Ban Ki Moon, si è celebrata, il 23 settembre, una edizione straordinaria del Climate Summit incaricato di gettare le basi, al di là delle usuali, vaghe dichiarazioni di principio, per l’accordo globale sul clima destinato a sostituire l’ormai sepolto protocollo di Kyoto.
Nonostante la preoccupazione generale emersa dai report della scienza e dalle parole degli intervenuti, e nonostante il prossimo appuntamento Onu sul clima sia, a breve, la 20esima Conferenza delle Parti che si terrà a Lima a fine 2014, la sigla dell’accordo – e le aspettative generali – sono rimandate di un altro anno e riversate sull’appuntamento successivo: la 21esima Cop che si terrà a Parigi nel dicembre 2015.
Dalla disamina seguente, che incrocia i dossier della comunità scientifica sui rischi dei cambiamenti climatici e i proclami e documenti elaborati da governi e organismi internazionali chiamati a rispondere all’allarme, è evidente l’inadeguatezza delle strategie sin qui messe in campo e la sostanziale inutilità delle buone intenzioni espresse a New York in assenza di una chiara ed immediata assunzione di responsabilità che si traduca in tempestive e concrete misure di riduzione delle emissioni.
Gli allarmi della scienza
L’ultimo documento dell’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, diffuso nell’agosto scorso, confermava le grosse preoccupazione espresse dal Panel nei report precedenti, e stimolava ancora una volta i governi a prendere in tempi certi misure concrete. “Il cambiamento climatico è in atto. Le emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento, che comporterà cambiamenti a lungo termine in tutto il sistema-clima, accrescendo la probabilità di impatti severi e irreversibili per le persone e l’intero ecosistema. Continuare a far aumentare la temperatura globale avrà quasi certamente effetti catastrofici, tra cui l’estinzione di massa di specie vegetali e animali, insufficiente disponibilità di cibo, inondazione di ampie zone costiere e molti altri catastrofici problemi“. (Fonte: Report IPCC Agosto 2014)
Dello stesso tenore il Bollettino annuale della WMO, l’Organizzazione Metereologica Mondiale dell’Onu, diffuso all’inizio di settembre, che certifica un ulteriore record negativo: nel 2013 le emissioni di gas serra hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi 30 anni. Nel rapporto 2014 sulle emissioni clima alteranti, la WMO lancia un allarme sullo stato dell’atmosfera e degli oceani, pesantemente compromessi dall’aumento delle emissioni. (Fonte: Bollettino Wmo 2014)
La concentrazione di Co2 in atmosfera è stata nel 2013 più alta del 142% rispetto al 1750, prima della rivoluzione industriale: le parti per milione (ppm) di anidride carbonica sono arrivate a 396. Dal 2012 al 2013 la CO2 è aumentata di ben 2,9 ppm, l’aumento annuale maggiore registrato nel periodo 1984-2013. Se si confermasse questo trend nel 2015-2016 la concentrazione globale supererà la soglia dei 400 ppm. Anche il metano atmosferico nel 2013 ha fatto registrare un nuovo record con concentrazioni di 1824 parti per miliardo (ppb), mentre il protossido di azoto ha raggiuntole 325,9 ppb, a causa soprattutto del massiccio uso di fertilizzanti e dell’implementazione selvaggia delle biomasse. Nel presentare il rapporto, Michel Jarraud, segretario generale della Wmo ha puntato il dito contro i combustibili fossili, tuonando: “Dobbiamo invertire subito questa tendenza, stiamo esaurendo il tempo disponibile.“
Passerella per i governi
I grandi assenti – Oltre 120 governi rappresentati al Summit è un numero importante che non si vedeva dai tempi di Copenaghen; alcune defezioni sono tuttavia di enorme rilievo. Grandi assenti della kermesse, i rappresentanti dei governi di Cina e India. Né il presidente Cinese Xi Jinping né il primo ministro indiano Narendra Modi hanno partecipato al Summit. Assenze problematiche considerato il contributo di questi paesi alle emissioni globali: la Cina, ad esempio, ha recentemente superato il livello di emissioni pro capite dell’UE, con una quota di 7,2 tonnellate ad abitante. In termini di emissioni assolute, il paese asiatico emette invece in atmosfera più di Stati Uniti e Europa messi assieme. L’assenza dei governi di India e Cina è di per sé elemento di forte preoccupazione circa l’efficacia di un nuovo accordo vincolante, cui si aggiungono le posizioni contraddittorie (tra dichiarazioni e politiche implementate a livello nazionale) di numerosi dei Paesi presenti al Summit.
Obama e il Fracking – Dopo l’exploit e il successivo fallimento del vertice di Copenaghen del 2009 che costituì la prima uscita pubblica di Obama dopo la sua elezione, e dopo 5 anni di buco, l’attenzione del presidente Usa sembra tornata almeno a parole sul cambiamento climatico. Obama aveva annunciato già nel giugno scorso l’intenzione di raggiungere il taglio del 30% delle emissioni entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. Peccato che questa nuova politica ambientale sia basata essenzialmente su due pilastri: fornire alle centrali a carbone filtri più efficienti e aumentare il numero degli impianti alimentati a gas grazie all’implementazione selvaggia dello shale gas, estratto attraverso la devastante pratica del fracking o fratturazione idraulica. Tutt’altro che una svolta ambientalista.
L’Italia al Climate Summit – Anche Renzi ha rivendicato dinanzi alla platea del Climate Forum l’importante lavoro svolto dall’Ue con i target di riduzione per il 2020 e il 2030, affermando che l’accordo che verrà siglato a Parigi dovrà essere vincolante, visto che quella dei cambiamenti climatici “è la sfida del nostro tempo e la politica deve fare la sua parte.”
Il suo Ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, non è stato da meno. A metà settembre ha auspicato un “accordo virtuoso di tutta l’Europa per la riduzione delle emissioni di CO2“, annunciando che il tema è stato indicato come prioritario nell’agenda ambientale della presidenza italiana dell’Ue.
Al di là dell’inesistenza di concreti disincentivi alle energie fossili a livello europeo e degli innegabili limiti di efficacia della core strategy costituita dall’ETS – Emission Trading Scheme, il sistema di scambio di quote di emissioni, le posizioni espresse dall’Italia stridono assai con la politica energetica ingaggiata dal governo. (Per approfondire: Pacchetto UE 2030 e strategia europea sul clima. Alcune perplessità)
A livello nazionale infatti, confermando la linea indicata nella SEN – Strategia Energetica Nazionale 2012 di Passera e Clini, anche gli ultimi provvedimenti governativi, tra cui spicca il decreto Sblocca Italia, non vanno certo nella direzione del superamento delle fonti fossili. Ampliare i livelli estrattivi di idrocarburi; aprire nuovi fronti di estrazione soprattutto in mare vicino a zone di altissimo valore naturalistico e turistico; implementare tecniche estrattive non convenzionali; puntellare il paese da nord a sud di impattanti infrastrutture energetiche come oleodotti, gasdotti, elettrodotti spesso in aree ecologicamente preziose o altamente sismiche è il cuore della strategia energetica del bel paese. Altro elemento di critica all’operato di Renzi, lo spostamento al 2020 dell’ecobonus per la riqualificazione energetica degli edifici, che avrebbe permesso un serio investimento in efficienza.
Resta da chiarire come tali decisioni, unite alla chiara tendenza estrattivista del governo, possano convivere con i proclami di Renzi a New York.
Occasione ghiotta per le grandi imprese
Oltre alle delegazioni governative in pompa magna, l’incontro di New York è stato letteralmente occupato dalle multinazionali, come denunciato da oltre 300 movimenti e organizzazioni sociali prima dell’inizio del vertice. Evenienze che hanno reso l’atteso summit né più né meno che una passerella di buone intenzioni espresse dai governi ma ancor più ghiotta occasione di green washing e nuovi profitti per le grandi imprese.
Anche da parte dei colossi economici presenti al Summit non sono mancati gli annunci roboanti. Resta da vedere quante di queste intenzioni si tradurranno in impegno concreto: annunciare al mondo rosee intenzioni è molto meno impegnativo e costoso che metterle in pratica.
L’Enel, per bocca dell’Ad Starace, ha annunciato che entro il 2015 l’azienda sarà Carbon neutral. Annuncio che ha del miracoloso, se si considera che solo l’anno scorso l’allora presidente Colombo aveva affermato che appena il 42% della produzione totale del gruppo poteva considerarsi ad emissioni zero. Altri colossi, come Rockfeller Brothers, Nestlè, Kellogg’s, Ikea, McDonald’s, Unilevel, per citarne solo alcuni, hanno promesso maggiore attenzione alle catene di forniture, maggiori investimenti sulle rinnovabili e più impegno nella preservazione delle foreste.
Dietro a questa ritrovata coscienza ambientale ci sono chiaramente calcoli di convenienza economica. Per fare solo un esempio, come spiega Oxfam, il prezzo di produzione dei corn flakes Kellogg’s potrebbe aumentare fino al 44% nei prossimi 15 anni a causa del riscaldamento globale.
Dato positivo resta comunque la sigla, da parte di 32 governi, decine di organizzazioni ecologiste e indigene e 40 grandi imprese, della Dichiarazione sulle Foreste, che prevede di dimezzare la deforestazione entro il 2020 e stopparla entro il 2030.
Greenpeace international ha annunciato che veglierà sulla realizzazione delle promesse fatte dalle imprese durante le giornate newyorkesi, pur chiarendo che senza un ambito istituzionale di impegni vincolanti da parte dei governi, l’azione privata, anche se di grosse aziende, è destinata all’inefficacia.
Nell’ottica della quantificazione economica degli impatti del cambiamento climatico va anche il lavoro della Global Commission on the Economy and Climate, presieduta da Nicholas Stern, economista britannico già capo economista della Banca Mondiale, autore del famoso Rapporto Stern che nel 2006 calcolò gli impatti economici del cambiamento climatico. “Se non si farà fronte alla sfida climatica – avvertiva il report – i danni per l’economia globale equivarranno a una perdita complessiva del 20% del Pil”. Per invertire la rotta, il rapporto parlava di un investimento necessario pari almeno al 1% del Pil mondiale entro il 2015. (Fonte: Report Better Growth, better climate, Global Commission on the Economy and Climate)
Secondo le recenti stime diffuse dalla Global Commission, la sfida al clima si può vincere non rinunciando a profitti e crescita. Al di là dei limiti dell’impostazione di fondo, che utilizza parametri economici per argomentare la convenienza della lotta al cambiamento globale, il rapporto afferma che per una azione efficace occorrerebbe anzitutto azzerare i sussidi alle fonti fossili, pari a circa 600 miliardi di dollari l’anno, contro i 100 miliardi destinato allo sviluppo delle rinnovabili. Allo stesso modo, occorrerebbe pensare le infrastrutture previste nei prossimi 15 anni, per un totale stimato di 90.000 miliardi di dollari di investimenti, in un ottica low carbon. Questo comporterebbe una spesa di circa 270 miliardi di dollari in più l’anno, che sarebbero però compensate dalla minor dipendenza dai fossili oltre che dal risparmio in sanità pubblica. La percentuale di Pil che i 15 paesi che emettono più Co2 spendono per i danni sanitari causati all’inquinamento atmosferico è infatti pari a ben il 4%.
Road map per la decarbonizzazione
Il 19 settembre, alla vigilia del Climate Summit, è stato diffuso il Report 2014 del Deep Decarbonization Pathways Project (Ddpp), l’iniziativa di cooperazione globale contro il cambiamento climatico presentata per la prima volta nel luglio scorso. Il progetto è realizzato da 30 istituti di ricerca di 15 paesi. Tra essi, 13 sono nella lista delle 15 nazioni con più alto livello di emissioni a livello globale: ovvero Cina, Russia, India, Germania, Corea del Sud, Giappone, Usa, Indonesia, Messico, Canada, Sud Africa e Brasile (mancano alla task force gli altri tre paesi della lista Emirati Arabi, Arabia Saudita e Iran). Gli altri 3 partner sono Francia, Australia e Regno Unito. Lo sforzo del report è disegnare, paese per paese, un percorso concreto verso un’economia low-carbon.
Il report 2014, il primo del Ddpp, presentato a New York, afferma che le emissioni devono essere ridotte da 36 gigatoni, livello attuale, a 11 gigatoni entro il 2050 per poter sperare di contenere l’innalzamento della temperatura entro il prudenziale livello di 2°.
Secondo il Report, nonostante ogni paese stia adottando modalità di riduzione differenti, i sistemi energetici in giro per il mondo devono avere un “dna condiviso” in termini di soluzioni adottate per la riduzione. Le soluzioni condivise a cui si fa riferimento sarebbero l’efficientamento energetico ed il passaggio da fonti energetiche ad alta intensità di produzione di Co2 alle rinnovabili entro il 2050. Tuttavia una differenza il documento la pone: per i paesi in via di sviluppo come la Cina, l’uso del carbone potrà continuare ancora per pochi decenni per poi diminuire ed essere sostituito con il vento ed il sole. In altri paesi come gli USA, l’utilizzo del carbone deve invece iniziare a diminuire già in questo decennio. Lo sviluppo di sistemi in grado di ottimizzare l’accumulo dell’energia durante le ore di punta relativamente al sole ed al vento per poi trasmetterla alle smart grid giocherebbe un ruolo importante, ma occorre supplire alla diffusione e concentrazione di queste ultime solo in alcune zone del globo. (Fonte: Report Ddpp 2014)
Oltre a dossier periodici, nel 2015 il Ddpp produrrà poi una relazione completa sulla Francia, proprio in vista della 21esima Cop sul clima di Parigi. Per il momento, tra le indicazioni per singolo paese: la Gran Bretagna entro il 2050 dovrà produrre il 35% dell’energia elettrica da nucleare, l’Australia dovrà lavorare principalmente sui sistemi di trasporto pubblico per ridurre le emissioni, il Sud Africa dovrà investire principalmente in energia solare. Grande rilievo e importanza strategica vengono poi riservati in generale alle tecniche di Carbon Capture and Storage (Ccs), sulla cui efficacia e sostenibilità ecologica le critiche non mancano. Il Ccs prevede di catturare la Co2 emessa dei processi di combustione attraverso procedimenti chimici che, separando e fluidificando il carbonio, permetterebbero di stoccarlo nel sottosuolo. Tuttavia sulla sicurezza di questa tecnica in termini di stabilità geologica e sulla sua tenuta nel tempo persistono molti dubbi, senza contare i costi della ricerca e della sperimentazioni (sottratti allo studio di tecnologie e innovazioni per lo sviluppo e lo stoccaggio delle rinnovabili) e la quantità di energia necessaria ad iniettare Co2 in profondità.
Altre (false) soluzioni
Come sul Ccs, anche sulle altre soluzioni emerse dalle Cop precedenti, le riserve della comunità scientifica e della società civile sono numerose ed argomentate.
Come emerso a Cancun nel 2010 e confermato a Rio nel 2012 durante il vertice Rio+20, i partenariati tra pubblico e privato e i meccanismi di mercato come i crediti di carbonio continuano ad essere al centro delle politiche di riduzione delle emissioni.
Conferma di tale tendenza la concomitante celebrazione, nella settimana 22-28 settembre, della Climate Week 2014, la Settimana per il clima, organizzata dal Climate Group, organizzazione internazionale che da 10 anni si occupa proprio di lavorare, con multinazionali e partner governativi, allo sviluppo di “meccanismi finanziari per il clima e nuovi modelli di business” a supporto delle politiche di riduzione delle emissioni. Peccato che i meccanismi finanziari si siano fin qui rivelati inefficaci per una riduzione concreta delle emissioni, contribuendo invece efficacemente a creare nuove e ghiotte occasioni di speculazione finanziaria utilizzando, più che rispondendo, all’emergenza climatica.
Forti critiche continua a sollevare, nelle organizzazioni ecologiste e nei movimenti indigeni di tutto il pianeta, il programma di Riduzione delle Emissioni da Deforestazione e Degradazione REDD, utilizzato più che per tutelare le aree forestali per “costituire una nuova forma di diritti di proprietà commerciali su foreste e altri servizi ambientali, concretizzandosi in una possibilità offerta alle industrie contaminanti per compensare le proprie emissioni in maniera semplice ed economica, violando i diritti delle comunità rurali e indigene che sono vere protagoniste nella salvaguardia dei boschi, soprattutto quelli tropicali”, come ha più volte denunciato la rete Carbon Trade Watch. Simile al meccanismo del Redd è la cosiddetta Blue Carbon Initiative, che è concentrata sul carbonio immagazzinato negli ecosistemi marini costieri, come quelli di mangrovie. (Per una lettura critica del meccanismo Redd+ si veda il Dossier No Redd+ in spagnolo, realizzato dall’osservatorio Carbon Trade Watch )
Diversi anche i punti controversi della cosiddetta Climate-Smart Agriculture o “Agricoltura climaticamente intelligente”, che si traduce principalmente nella delega, a multinazionali delle sementi e dell’agrobusiness, di un ruolo di primo piano nel disegno delle politiche alimentari a livello globale. Tale indirizzo, secondo la rete internazionale La Via Campesina, viola la sovranità alimentare e disconosce il ruolo dell’agricoltura contadina nella protezione del territorio. Ѐ verosimile che l’implementazione di questo tipo di agricoltura provocherà una ancora maggiore concentrazione di terre, creerà dipendenza degli agricoltori da varietà di sementi resistenti alle modificazioni del clima, aumentando la vulnerabilità dei piccoli produttori. Senza contare che si tratta di un modello basato sull’utilizzo massiccio di composti chimici altamente tossici e di fonti fossili, contrario ad ogni logica di riduzione di emissioni.
Ulteriore programma varato dall’Onu è la SE4ALL – Sustainable Energy for All Initiative, lanciata dalla segreteria generale dell’Onu nel settembre 2011, con l’obiettivo di raddoppiare sia il livello di efficienza energetica che di energie rinnovabili entro il 2030 agendo su tre aspetti fondamentali: accesso all’energia, efficienza energetica, sviluppo di rinnovabili. Già nel 2012 Global Forest Coalition aveva denunciato che nel board direttivo dell’iniziativa erano presenti “membri provenienti dalle maggiori multinazionali energetiche, industriali e finanziarie oltre che importanti investitori nel settore dei combustibili fossili tra cui Eskom, Statoil, Siemens e Riverstore a fronte di cinque membri governativi e appena tre ong“. Attualmente fanno parte dell’Advisory Board Members, tra gli altri, i Ceo di Royal Dutch Shell,MASDAR, Statoil, Bloomberg New Energy Finance, Acciona. (Composizione dell’attuale Advisory board member)
La maggiore criticità, nell’impostazione di una stretta cooperazione pubblico-privato in tema energetico è, in concreto, il rischio che politiche energetiche pubbliche elaborate in collaborazioni con i colossi dell’energia non possano prescindere dalla tutela degli interessi economici di questi ultimi. Oltre a ciò, la SE4ALL non esclude, dalla definizione adottata di energia sostenibile, alcun tipo di produzione industriale di energia, sia essa contaminante o meno, ne è esempio l’inserimento tra le tecnologie applicabili del processo di incenerimento dei rifiuti.
Ulteriore trovata discutibile è poi l’istituzione del BBOP, Business and Biodiversity Offsets Programme, nato dalla collaborazione di 75 soggetti tra cui imprese, istituzioni finanziarie, agenzie governative e rappresentanti delle ong con l’obiettivo di mettere a punto un sistema di compensazione per la biodiversità. Oltre alla discutibile monetarizzazione di ogni risorsa naturale, questo meccanismo legittima l’ottica per cui, in pratica, la degradazione o la contaminazione di una determinata area può essere compensata dalla creazione in qualunque angolo del pianeta, di un habitat con le stesse caratteristiche.
Infine, le altre misure previste, tra cui l’implementazione su larga scala di agrocarburanti (che significano principalmente estensione di grandi monocolture energetiche con la conseguente corsa all’accaparramento di terre, la perdita di biodiversità e l’erosione dei suoli), la geoingegneria, la produzione di energie da incenerimento, la diffusione di tecniche di estrazione non convenzionale come la fratturazione idraulica o fracking (che attraverso l’immissione ad alta pressione di quantità enormi di acqua mischiate a decine di composti tossici, estrae le particelle di gas immagazzinato nelle rocce) sembrano rispondere a criteri molto lontani da una reale azione di contrasto al cambiamento climatico.
Fondo verde per il clima, diamo i numeri
Un’altra delle questioni centrali in discussione riguarda il sostegno da parte dei governi al Green Climate Fund, Fondo Verde per il Clima, secondo quanto pattuito a Copenaghen nel 2009, per finanziare misure di mitigazione e adattamento soprattutto nei paesi più vulnerabili. Il Fondo mette assieme risorse pubbliche e private, che dovrebbero arrivare ad almeno 200 miliardi di dollari in assets finanziari entro la fine del 2015. L’Ue stanzierà in tutto, entro il 2020, 18 miliardi di dollari, di cui 2,5 nel biennio 2014-15. A 100 miliardi circa dovrebbe arrivare il contributo delle banche di sviluppo facenti parte dell’International Development Finance Group mentre circa 30 miliardi dovrebbe essere l’ammontare entro il 2015 del contributo delle banche commerciali. Occorre tuttavia sottolineare che è dal vertice di Copenaghen che continuano a succedersi dichiarazioni circa prossime iniezioni di liquidità nel fondo. Un dato certo è che, fino a prima del vertice, solo 55 milioni (non miliardi) facevano concretamente parte del gruzzolo.
People for climate
Per ribadire l’importanza dell’emergenza climatica e la necessità di farvi seriamente fronte, movimenti e organizzazioni sociali hanno invece marciato il 21 settembre, nell’ambito della Giornata Globale di Azione. In decine di città di tutto il mondo 1 milione di persone è scesa in piazza per denunciare le conseguenze del cambiamento climatico: desertificazione, eventi metereologici estremi, flussi migratori sempre più numerosi di profughi ambientali e per chiedere che la lotta al riscaldamento del pianeta diventi punto prioritario nell’agenda dei governi.
Al di là dell’oceanica partecipazione alla mobilitazione, il documento diffuso indica 10 ricette concrete per far fronte all’emergenza clima, tra esse: il carattere vincolante e non volontario degli impegni; una strategia di transizione alle rinnovabili con maggior controllo pubblico e delle comunità locali; un forte impegno nella ri-territorializzazione delle produzioni e dei consumi per risparmiare i costi energetici del trasporto; il ritorno ad un modello agricolo sostenibile visto il carico emissivo del modello agroindustriale, investire in trasporto pubblico a basso impatto; implementare strategie rifiuti zero, partendo dalla riduzione a monte. (Leggi documento integrale e adesioni)
In definitiva, le “soluzioni” disegnate dalla governance in concerto con le imprese, ma tenendo fuori dai processi di elaborazione organizzazioni sociali e comunità, si sono dimostrati sin qui incapaci di contribuire in maniera concreta alla riduzione delle emissioni. Al contrario essi erodono biodiversità, concentrano profitti presso le grandi imprese, compromettono i sistemi idrici. Ciononostante, sono divenuti contenuti centrali nelle negoziazioni commerciali in corso, a partire dal TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership e dal TPP Trans-Pacific Partnership Agreement, cui impostazione di fondo è la privatizzazione dei servizi e la mercificazione della natura e di ogni aspetto della vita. (Visita la pagina della Campagna Stop-Ttip Italia)
Non vi è altro modo di rispondere alla sfida posta dalla modifica del clima se non il ripensamento del nostro modello economico e sociale. In tal senso, la crisi climatica può e deve essere occasione per immaginare e programmare una trasformazione profonda del nostro sistema produttivo e del modello energetico che lo alimenta, attraverso una serrata transizione che preveda, senza rimandarlo oltre, l’abbandono delle fonti fossili e la promozione di una generazione di energia distribuita e da fonti non impattanti.
Fonte: www.huffingtonpost.it