In due anni dal suo insediamento il Governo Renzi ha prodotto una serie di “riforme” che investono diversi ambiti della società e della vita delle persone, ispirate da una logica neoliberista, regressiva e autoritaria per cui sono stati attaccati e compressi diritti fondamentali dei cittadini.
La riforma della Costituzione e il combinato disposto con la legge elettorale rappresentano il tassello mancante rispetto a tale disegno.
Appare, infatti, sempre più evidente come l’obiettivo reale sia ridurre i bisogni sociali che giungono a livello istituzionale, in quanto troppo numerosi e ai quali non s’intende sacrificare gli interessi già protetti dei mercati e delle lobbies. Per questo motivo si restringono gli spazi di agibilità politica svilendo gli strumenti di democrazia diretta (vedasi la triplicazione delle firme necessarie per la presentazione di una legge d’iniziativa popolare), si restringe l’autonomia degli Enti Locali, si recidono i canali di trasmissione delle domande con la riduzione della pluralità della rappresentanza, si impedisce, attraverso la verticalizzazione del potere, a molte voci di farsi sentire, escludendo interi strati sociali, riducendo i margini di dissenso.
D’altra parte l’esperienza concreta ha messo in evidenza come sia già in atto una gravissima crisi democratica, che si manifesta a tutti i livelli, con lo svuotamento dei poteri delle assemblee elettive ed il ridursi dei consigli comunali a luoghi dove si ratificano semplicemente le decisioni prese in altri sedi.
L’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio ha sancito di fatto l’assoggettamento al dogma neoliberista della politica economica del nostro Paese e la sua subordinazione agli indirizzi sanciti con la linea dell’austerità a livello europeo.
La crisi economico-finanziaria e la conseguente logica del debito sono diventati gli alibi attraverso i quali imporre, a diversi livelli, poteri tecnici e polizieschi.
I vincoli di bilancio diventano prioritari rispetto alla garanzia dei diritti fondamentali.
Così, ciò che era socialmente inaccettabile, ovvero privatizzazioni dei servizi, vendita del patrimonio pubblico, restringimento degli spazi di democrazia, diviene politicamente inevitabile anche perché interiorizzato da gran parte delle forze politiche che governano sia a livello nazionale che locale.
Sui territori, poi, si sperimentano pratiche di eccezionalità giuridica, che vanno dalla creazione di status emergenziali ai super poteri commissariali, passando per dispositivi di controllo prefettizio.
In particolare, il movimento dell’acqua ha visto crescere, nonostante la vittoria referendaria, e, anzi, contraddicendola apertamente, una nuova strategia volta alla privatizzazione e finanziarizzazione dell’acqua e dei beni comuni, espropriando gli Enti Locali e le comunità territoriali di ogni facoltà nel determinare l’articolazione territoriale dei servizi e le politiche tariffarie.
L’attacco finale al referendum del 2011 si è provato a portarlo a compimento attraverso un’altra riforma “strutturale”, quella della Pubblica Amministrazione promossa dalla Ministra Madia. Nello specifico con il decreto attuativo “Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale”. Un provvedimento fortemente ispirato all’idea del mercato come unico regolatore sociale.
Una grande mobilitazione e l’intervento della Corte costituzionale hanno portato alla capitolazione di questa riforma. Infatti, la sentenza 251/2016 l’ha sostanzialmente demolita, sancendo l’incostituzionalità di diversi articoli della legge delega tra cui quelli relativi a dirigenza, società partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego.
La censura della Consulta si fonda sulla lesione del principio di leale collaborazione tra stato ed enti locali, principio che verrebbe, di fatto, cancellato dalle modifiche proposte alla Costituzione che porterebbero alla riduzione dell’autonomia legislativa regionale e alla possibilità di ricorrere alla cosiddetta “clausola di supremazia”, che consente allo Stato centrale di intervenire in via legislativa in materie di competenza regionale invocando un generico interesse nazionale. La sentenza, di fatto, ha demolito anche i decreti attuativi in quanto risultano illegittimi i presupposti su cui si basano. Per queste ragioni il Governo è stato costretto a ritirare il decreto sui servizi pubblici locali.
Una marcia indietro richiesta dal movimento per l’acqua da subito con la grande mobilitazione messa in campo a partire dalla primavera scorsa che ha prodotto centinaia di iniziative e una straordinaria raccolta di firme in calce alla petizione popolare (230.000 firme consegnate al Parlamento a fine luglio).
Abbiamo sempre denunciato l’incostituzionalità di questo provvedimento che avrebbe prodotto un pericoloso vulnus democratico provando a cancellare l’esito del referendum 2011. Su questa base si era aperto un confronto con la Ministra Madia la quale più volte aveva dichiarato che il servizio idrico sarebbe stato stralciato dalla versione definitiva decreto. Ciò avrebbe costituito solo un primo passo indietro, seppur importante, nel tentativo del Governo di sovvertire l’esito referendario. Abbiamo, infatti, sempre ribadito che andavano eliminate tutte le norme che puntavano alla privatizzazione dei servizi locali, che vietano la gestione pubblica tramite aziende speciali, oltre a quelle che permangono e creano, comunque, una disparità tra le diverse forme di gestione con un evidente favore per quelle privatistiche.
La nostra battaglia proseguirà perché siamo convinti della necessità di una inversione di rotta nel senso della piena attuazione degli esiti referendari e della promozione di un gestione pubblica e partecipativa dell’acqua svolta nell’interesse della comunità e che restituisca il giusto ruolo alle amministrazioni locali. Siamo anche convinti che il dibattito nel nostro paese debba ripartire proprio da questi punti e ci adopereremo affinchè l’eventuale nuovo testo di decreto sia radicalmente riformulato e la legge sull’acqua in discussione al Senato, svuotata e stravolta nel suo impianto generale, sia approvata nella sua versione originaria a partire dal ripristino dell’articolo che disciplinava i processi di ripubblicizzazione.
Anche a partire da questa esperienza intendiamo ribadire il nostro NO più convinto alla riforma costituzionale. E ciò per almeno tre ragioni di fondo: la prima è che il combinato tra controriforma costituzionale e legge elettorale nasce proprio con l’idea di restringere gli spazi di democrazia in termini funzionali ad affermare le scelte di carattere neoliberista e classista che contraddistinguono l’attuale governo. La seconda è relativa ai contenuti specifici della controriforma costituzionale (approvazione delle leggi a data certa, subordinazione del ruolo delle Regioni al governo, limitazione degli strumenti di democrazia diretta e partecipativa), che disegnano un’architettura istituzionale per cui si configura un forte accentramento dei poteri in capo al governo e al presidente del consiglio.
La terza è che non è possibile disgiungere i contenuti delle scelte sul terreno economico e sociale da quelle relative alle forme e agli assetti istituzionali. Da questo punto di vista, è evidente che, se non si vuole produrre un discorso che rischia di essere astratto sulla difesa e sull’espansione della democrazia, esso va innervato di contenuti e fatto vivere in relazione alle scelte che intervengono sulle politiche economiche e sociali, su quelle scelte che riguardano la condizione di vita concreta delle persone.
Qui sta un elemento di relazione forte tra il percorso del movimento per l’acqua e l’iniziativa per far vincere il No alla controriforma istituzionale.
Ribadiamo, dunque, il nostro impegno perché ciò possa realizzarsi e la certezza che i nostri percorsi si incroceranno con ancora maggior forza.